Abbiamo, doverosamente, riportato qualche giorno fa la dura presa di posizione dell’Aidepi, l’Associazione delle industrie del dolce e della pasta italiane, contro “il dubbio che un prodotto così amato come la pasta possa non essere sicuro, parlando addirittura di “falso made in Italy”.
Ed abbiamo riportato anche le prese di posizione della Ministro Nunzia De Girolamo: da un lato criticata perché è andata a sostenere le ragioni della “battaglia di Natale” della Coldiretti contro l’import di materie prime dall’estero; dall’altro pronta, pochi giorni dopo, a dichiarare che «la filiera della pasta rappresenta uno dei comparti di maggiore eccellenza del patrimonio agroalimentare del nostro Paese».
Non vogliamo denigrare “le aziende pastarie italiane, spesso ultracentenarie”. Ma è la stessa associazione che conferma che il grano per la produzione della pasta arriva in buona percentuale (60%?) dall’estero (Canada in prima fila): allora è bandiera del Made in Italy anche il formaggio fatto con latte tedesco?; il prosciutto doc prodotto da cosce di maiali allevati in Polonia?; e l’extravergine realizzato con olive raccattate in giro per il mediterraneo?
Ha ragione l’Aidepi quando scrive (nello stesso comunicato) che “la contraffazione è una pratica illegale e come tale va perseguita”. Ma per contrastare questo fenomeno è indispensabile la chiarezza e la coerenza: da tempo l’Italia chiede all’Europa, ad esempio, la tracciabilità delle carni. Tutte e con la provenienza d’origine ben indicata in etichetta, così da informare il consumatore. Un principio che farebbe bene non solo in quel comparto, ma a tutela dell’immagine di tutto il Made in Italy. Qualche tricolore in meno sulle confezioni e indicazioni sincere in etichetta sono il primo passo per sconfiggere l’italian sounding.