Non ho nulla di preconcetto contro il ‘tappo a vite’. La sviluppo tecnologico ci ha portato a innovazioni anche in questo comparto e lo stesso tradizionale tappo di sughero ha visto la sua storia cambiata da sistemi tecnologicamente avanzati, sintetici e scientificamente testati proprio sulle esigenze specifiche del vino.
Ciò non toglie che, da veneziano, quando entravo – ancora un paio di decenni fa – in un ‘bacaro’ per chiedere un ‘bianco’ o un ‘rosso’, la risposta del gestore era sempre la stessa: “buono o da ‘mureri’?”. Perché i muratori – giudicati, a torto o a ragione, grandi consumatori – si permettevano solo il vino più modesto, quello nei bottiglioni da due litri. Il confronto tra ‘sughero’ e ‘tappo a vite’ resta nell’immaginario di molti appunto questo: da un lato il vino dell’enoteca, dall’altro quello del supermercato.
Considerata questa matrice ‘storico-personale’, ho trovato esemplare l’assemblea del Consorzio per la Tutela dei Vini Valpolicella D.o.c. Preannunciata dall’allarme delle dodici famiglie ‘storiche’ preoccupate che l’etichetta “Amarone” fosse assegnata non solo nelle zone collinari, ma anche in quelle di pianura, si è conclusa con la concessione all’imbottigliamento del Valpolicella con ‘tappo a vite’. È il costante dilemma, oggi riproposto dal mercato globale: solo che nel ‘bacaro’ mi giocavo un po’ di acidità di stomaco, oggi la posta in palio per l’intero comparto nazionale è molto più alta e la fretta di realizzare un immediato sostegno alla produzione, potrebbe domani costare quella posizione di eccellenza mondiale che faticosamente il vino italiano si è costruito in tanti anni di paziente lavoro all’inseguimento della miglior qualità.