L’omologazione dell’etichetta per gli alcolici o i divieti non assicura un consumo più responsabile, anzi finisce con il penalizzare i consumatori moderati e più attenti. Ne è convinto il direttore generale di Federvini, Ottavio Cagiano, che risponde alle pressioni che stanno arrivando, specie da alcuni paesi del Nord Europa, per una standardizzazione delle etichette degli alcolici, privandole dei brand e delle caratteristiche dei vari prodotti, al fine di scoraggiarne il consumo per prevenire fenomeni di alcolismo.

Di recente sul tema è intervenuto anche il presidente dell’Accademia del vino di Francia, Jean-Robert Pitte, che ha preso spunto dall’introduzione della misura in alcuni paesi come l’Irlanda per i pacchetti di sigarette. Pitte ha sottolineato come appunto solo il consumo responsabile e informato sia la migliore strada per la prevenzione degli abusi. «La cultura del divieto non serve a niente – spiega il direttore Ottavio Cagiano – anzi è una facile scorciatoia per i politici che poi demandano il controllo ad altri». Il problema è invece educare al bere consapevole e responsabile soprattutto per quelle fasce di popolazione che sono più a rischio come i giovani. E non lo si fa con la standardizzazione delle etichette.

Federvini: le etichette anonime per gli alcolici sono inutili

Il vero rischio delle etichette anonime è che a guadagnarci sia chi lavora a bassa qualità: il brand infatti è spesso segno di serietà ed esperienza. «Il consumatore attento – continua Cagiano – è già consapevole e chiede spesso anche più di quello che c’è in etichetta. Chi non è preparato, quindi le fasce più a rischio, l’etichetta non la legge neppure. Perciò questo dimostra come il packaging non abbia alcun valore in questo senso. Un conto è educare e informare, un conto usare l’etichetta per migliorare la preparazione dei consumatori».

Secondo il manager di Federvini: «Quando il consumatore consuma un vino consapevolmente lo fa per apprezzarlo, per averne un ricordo o un’emozione. Quindi piuttosto che scimmiottare metodi che arrivano da altri prodotti nocivi per la salute, lavoriamo sulle fasce più a rischio e studiamo quelle modalità che effettivamente possano ridurre i rischi. I produttori sono pronti a discutere anche delle modalità di informazione, ma non possiamo lasciare ai giovani solo una serie di divieti». Per Fedevini insomma siamo di fronte ad un problema culturale: “è vero che i produttori ci mettono la faccia e sono parte interessata. Ma qui il problema è educativo e culturale, non è questione di divieti”.