La produzione è diminuita nell’ultimo decennio, comunque il Made in Italy fa camminare il mondo .

L’Italia è il principale produttore europeo di scarpe. Nel 2017, infatti, nel nostro Paese si generava un terzo dei volumi complessivi continentali. Anche a livello mondiale, l’Italia si fa rispettare, risultando il decimo Paese per calzature prodotte e il terzo esportatore mondiale per il valore della produzione, dietro a Cina e Vietnam.
I dati arrivano dallo studio Eurispes, ‘Strategie di difesa attiva del Made in Italy calzaturiero’. La produzione rappresenta il 15,1% dell’export totale del settore Tessile – Moda e Accessorio Italiano. Nel 2018, sono usciti dalle fabbriche 184 milioni di paia di scarpe per 7,86 miliardi di euro. Appena il 15% del totale, cioè 27,5 milioni di paia, è destinato al mercato interno. L’anno scorso, il valore dell’export è stato pari a quasi 10 miliardi di euro.
Rispetto a dieci anni fa, però, c’è stata una diminuzione del venduto del -8,4% e del valore del -27,9%. Oggi in Italia ci sono 4.500 calzaturifici che danno a lavoro a 75.600 addetti. La crisi economica, che ha morso fin da metà degli anni Novanta, ha causato la chiusura di quasi il 50% delle aziende, con un calo delle forze lavoro del 38,3%.
Dal 2000 a oggi, di conseguenza, i volumi di produzione si sono più che dimezzati: -52,7%. Il mondo delle calzature in Italia è molto frammentato: il 65,2% delle aziende è micro impresa che assorbe il 13,5% dei lavoratori; le piccole imprese assorbono il 54,1% degli addetti. Le otto regioni a forte rilevanza calzaturiera sono Veneto, Toscana, Lombardia, Marche, Emilia Romagna, Puglia, Piemonte e Campania.

Gian Maria Fara
presidente Eurispes

Il distretto industriale è patrimonio nazionale, fonte di valore economico, sociale e culturale, unici al mondo: nella scarpa, come negli altri settori di produzione che lo alimentano.
Un sistema – moda come quello italiano, che genera 90 miliardi di valore con più di 500 mila addetti sul territorio nazionale, rappresenta non solo un asset economico ma, forse soprattutto, un patrimonio sociale e culturale che non può essere sacrificato sull’altare della globalizzazione selvaggia.