Il sempre autorevole rapporto Ambrosetti che è presentato nel corso del recente Milano Global Fashion Summit ha disegnato il dettaglio della serie di cambiamenti che la pandemia mondiale da Covid-19 ha generato nel mondo della moda. Ne emerge l’immagine di una geografia dell’approvvigionamento della filiera che è radicalmente cambiata, almeno temporaneamente. A risentirne maggiormente sono state le aziende dell’estremo oriente che hanno dovuto rapidamente orientare verso il mercato interno, e comunque quelli più vicini, le proprie produzioni. Cina e Russia, infatti, sono i mercati che hanno visto una crescita maggiore dei consumi mentre venivano a mancare le opportunità di esportazione, proprio a causa della pandemia. Il caso Italia, ma altrettanto vale anche per i cugini francesi e per il resto d’Europa, è per certi aspetti diverso in quanto sono entrarti in gioco due fattori. Da una parte la mancanza dei ricchi turisti stranieri ha pesantemente ridotto gli introiti commerciali del lusso e non è stato sostituito dal mercato interno che solo in minima parte può assorbire l’eccellenza della produzione italiana di alta gamma. Dall’altro lato c’è un fattore che potrebbe avere conseguenze più durature: la fornitura di materie provenienti dai Paesi dove la manodopera è a più basso costo del lavoro non è più garantita e stabile, ed ancora non lo sarà per chissà quanto tempo. Ecco allora che per mantenere vive le attività connesse alla moda è stato necessario il ‘reshoring’, cioè il riportare in Italia quella parte di produzioni che erano state trasferite all’estero. Un fenomeno che potrebbe diventare anche strutturale e benefico per il Sistema Paese se si attivassero le condizioni di politica industriale a sostegno, dalla formazione per i giovani all’innovazione tecnologica, per guadagnare in competitività, diminuendo i costi. Per il comparto moda in Italia si prevede un recupero graduale e totale per la filiera per il 2022 e, se ci sono grandi aziende che anno già raggiunto il pareggio, a fare più fatica saranno le più piccole, cioè quelle sotto i 50 addetti che oggi rappresentano il 70% del settore. Ecco allora che la crisi pandemica apre una prospettiva che potrebbe essere occasione di crescita attorno ad un modello innovativo. Perché proprio ridando alla moda italiana il suo valore di creatività e innovazione, conclude il rapporto Ambrosetti, si potrebbe puntare ad una crescita dallo 0,2% (con gli occupati che ritornano al livello del 2010) allo 0,8% (occupati che ritornano al livello del 2000) del Pil del Paese.