Non è ancora iniziata la preannunciata sperimentazione (che potrebbe iniziare tra qualche settimana) e già ha attirato su di sé molti dubbi il sistema di etichettatura salutistica che l’Italia si appresterebbe a porre all’attenzione dell’Europa in alternativa al sistema ‘a semaforo’ varato dalla Gran Bretagna (e ‘sposato’ dalle multinazionali) e al Nutri-Score francese che sta diffondendosi oltralpe.
Così come è stato preannunciato da Luigi Scordamaglia, a nome di Federalimentare Consenso, l’etichetta italiana si presenta la più articolata mostrando cinque indicatori: energia, grassi, grassi saturi, zuccheri e sale. Per ciascuno di questi elementi una ‘batteria’, una immagine simile a quella che sul nostro smartphone indica la carica disponibile, da il valore percentuale sulla base del contenuto per una porzione di prodotto consigliata al consumatore. Le prime obiezioni nascono dal colore uniforme usato per l’etichetta: al primo sguardo è impossibile comprendere la differenza tra un prodotto e l’altro. Se il metodo britannico semplificava, anche troppo, in tre soli colori e quello francese cercava una differenziazione a seconda dei contenuti, questo metodo è tutt’altro che intuitivo e bisogna legge i piccoli numeri delle percentuali all’interno della ‘batteria’ stampata sotto.

Trasparenza, chiarezza e semplicità: difficile conciliare questi elementi in un piccolo spazio grafico

Ma proprio sull’uso della ‘batteria’ si sono appuntati i critici: istintivamente siamo abituati che le più questo segno grafico è pieno, più siamo contenti del nostro smartphone. Qui al contrario la batteria dovrebbe essere praticamente vuota perché il prodotto da acquistare sia desiderabile.
Infine c’è la questione della porzione ottimale: il consumatore dovrebbe essere a conoscenza di quale sia il quantitativo di prodotto che può essere consumato per rispettare quanto riportato in etichetta. Non è infatti la stessa cosa se si parla, per fare un esempio, di due fette di prosciutto o di un etto, di un cucchiaio di olio extravergine o di tre. Quando poi emerge che le ‘porzioni’ sarebbero state determinate non dall’Istituto Superiore di Sanità né dal Crea Nut, il Centro di ricerca per gli alimenti e la nutrizione, ma dal Ministero per lo sviluppo economico, in molti è sorto il dubbio che gli interessi in gioco siano stati prima economici che salutistici.