Lo abbiamo scritto altre volte negli mesi scorsi, ma ora è venuto il tempo: nel post pandemia il mondo della moda dovrà fare i conti con una realtà molto cambiata e con l’emergere di nuove generazioni di consumatori, diversi dalla ‘vecchia’ normalità.
Presentando la Fashion Week Donna di fine febbraio, il presidente della Camera nazionale della moda italiana, Carlo Capasa, non ha festeggiato il +20% della ripresa del comparto nel 2021, ma il clima di ottimismo legato al ritorno ‘in presenza’ delle sfilate e dei buyers globali (Cina ancora esclusa, per ora). Dimostrando nuovamente che la ‘grande moda’ è spettacolo, emozione, contatto diretto con le persone: un business che si fa sistema e che si autoalimenta invenzione dopo invenzione. Il ‘genio’ e il ‘saper fare’ italiano qui spadroneggiano e continueranno a farlo nel mondo.

Per la moda più diffusa, quella dei grandi numeri, la prospettiva è invece cambiata perché diverso è il pubblico al quale si rivolge, fatto di giovani che mostrano interessi e attenzioni che oggi sono (forse) meno effimere. E il fashion per i giovani si sta facendo meno ‘fast’: lo dimostrano i due colossi spagnolo e svedese che stanno puntando ad elevare la qualità (e i prezzi) delle proprie collezioni. L’offerta premium di Inditex sfiora il 5% e ancor più ha fatto H&M che ha lanciato una collezione significativamente denominata “Innovation Circular Design Story”, quasi un invito a circuitare i capi usati nei sempre più diffusi canali online delle vendite di seconda mano (anzi, ‘second hand’ che detto in inglese è meno dozzinale).
Indubbiamente termini come ‘sostenibilità’ e ‘tracciabilità’ sono in gran voga oggi e la speranza è che non si tratti di un fenomeno passeggero per il futuro del pianeta. Ricordiamoci che il porto di Iquique, in Cile, riceve ogni anno qualcosa come 59.000 tonnellate di scarpe e vestiti usati che per la maggior parte vanno poi ad inquinare l’altopiano di Atacama, il deserto più arido del mondo e la più grande discarica del fast fashion.

Che l’industria della moda debba affrontare seriamente la questione sostenibilità è ormai evidente: la Banca Mondiale stima che il settore tessile sia responsabile di oltre il 20% dello spreco globale di acqua, e che rilasci fino all’8% dei gas serra del mondo. E per la tracciabilità è oggi disponibile il Global Fibre Impact Explorer che unisce il know-how tecnico di Google a quasi mezzo secolo di esperienza in materia di conservazione ambientale del WWF. Dati prima opachi e inaccessibili sono oggi perfettamente messi a conoscenza dei grandi marchi che non possono più far finta di non sapere quale sia il rischio ambientale e l’impatto sul territorio della produzione di fibre tessili. La piattaforma permette di identificare i rischi ambientali associati a più di venti tipi di fibre sia naturali sia sintetiche. E sapere è il primo passo per migliorare: lo chiedono i giovani e il futuro del pianeta.