Non so come mai la notizia non abbia avuto il clamore delle prime pagine dei quotidiani eppure è un ‘colpo al cuore’ della credibilità del sistema agroalimentare italiano: parlo delle oltre 300 mila cosce di maiale danese che erano pronte per essere vendute come prosciutto di Parma e del San Daniele Dop. Ne abbiamo scritto nelle pagine di cronaca, ma una riflessione deve essere fatta perché è tutta la filiera che è finita ai margini, se non ben oltre, i confini della legittimità.
È doveroso sottolineare che non c’è nulla di pericoloso per i consumatori se non dal punto di vista economico. L’autodifesa degli allevatori sotto inchiesta della Procura di Torino, e poi anche di Pordenone, è proprio che veniva loro richiesto proprio quel tipo di cosce perché con meno grasso sottocutaneo e muscolatura più scarsa. Il danno era pagare per Dop un prodotto che non lo era. E che tutta la filiera sapeva non esserlo. Il nodo è proprio qui!
Oltre ai 140 allevatori di suini di Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna, “non potevano non sapere” gli ingrassatori che macellavano gli animali prima dei nove mesi previsti ed i macellai che lavoravano le canni anche al di sotto del peso previsto. E se i prosciuttifici erano contenti di ottenere un prodotto non di qualità, ma più facilmente commerciabile perché più magro e meno compatto, il problema profondo nasce dai controlli.
I due istituti certificatori, che su autorizzazione del Ministero delle Politiche Agricole controllano le filiere di salumi e formaggi Dop e Igp, l’Istituto Parma Qualità e l’Ifcq Certificazioni 1° maggio sono stati entrambi commissariati per sei mesi dall’Ispettorato centrale della tutela della qualità e repressione frodi dei prodotti agroalimentari (Icqrf) del Ministero. Quasi una ammissione che qualcosa non ha funzionato: peccato che l’inchiesta della Procura di Torino affondi agli illeciti fin dal 2014. Quali prosciutti abbiamo mangiato in questi ultimi anni nessuno saprà mai dircelo.