Da un lato la denuncia di Coldiretti sul crescente peso della agromafie sulle filiere del cibo italiano (ne abbiamo scritto diffusamente nei giorni scorsi); dall’altro la crisi del latte di pecora che esplosa in Sardegna si è presto allargata a tutti i produttori italiani (e che tuttora non ha trovato una sua soluzione, ma solo una tregua intervenuta dopo l’intervento del Governo). Due fatti che si intrecciano più di quanto non appaia in superficie.
Da più parti si sono espressi giudizi affrettati sul fatto che i produttori abbiano versato il loro latte dai cavalcavia sprecando, questa la lamentela, un bene che poteva essere di beneficio per chi è in difficoltà. È invece evidente la sofferenza di chi distrugge il frutto del proprio lavoro per ottenere un equo riconoscimento del valore del proprio prodotto. Volendo andar oltre alle superficiali critiche, è di nuovo un ragionamento sulla filiera che deve essere fatto e sulla tutela di un Made in Italy che offre garanzie assolute di qualità e di genuinità.
Necessariamente queste certezze offerte ai consumatori hanno un costo e il mercato dovrebbe conformarsi a questa evidenza e non ribaltare la logica, partire cioè dal prezzo finale al consumatore del pecorino romano e da questo, sfogliando la margherita dei tanti passaggi intermedi, imporre ai pastori quel che resta, gli spiccioli.
Al tempo stesso, ed anche in questo settore, il Governo dovrebbe intervenire per favorire la crescita del comparto: l’Agricoltura 4.0 ha registrato in Italia nel 2018 una crescita del +270%, ci dice l’Osservatorio Smart AgriFood della School of Management del Politecnico di Milano e del Laboratorio RISE (Research & Innovation for Smart Enterprises) dell’Università degli Studi di Brescia. Forse pecore 4.0 non ce ne sono, ma ragionare sull’efficentamento della filiera e di tutte le filiere dell’agroalimentare italiano a questo punto non è più rinviabile.