C’è più europeismo in Europa, con le sole eccezioni di Italia e Francia (la Gran Bretagna non conta più). Ci siamo svegliati lunedì 27 scoprendo che populisti e nazionalisti non sono maggioranza e che anzi i cittadini degli altri 25 Paesi continentali (eccezioni escluse) si riconoscono sempre più in una Europa forte, una grande democrazia chiamata a dialogare con il resto del mondo. Perché poi è proprio questo l’aspetto che ripetutamente abbiamo ricordato in queste pagine e che riguarderà il futuro del Made in Italy di cui ci occupiamo.
La scelta degli elettori italiani è stata, dicevamo, diversa, ma ciò non toglie che ci sono almeno due voci che devono preoccupare i governanti italiani: da un lato l’export che può crescere solo se i mercati sono aperti e le regole commerciali condivise a livello multilaterale. In questo, una larga Europa da 500 milioni di abitanti è una chiave di volta ineludibile perché non potranno mai essere 60 milioni di italiani a dettare le regole di mercato ad un miliardo e mezzo di cinesi e ad un miliardo di indiani. Credere diversamente è una illusione, un sogno dal quale il Paese potrebbe essere risvegliato da un principe che non sarà certamente azzurro.
Dall’altro lato c’è il problema della formazione, della ricerca e dell’innovazione (indissolubilmente legati all’ambiente, alla sostenibilità, alla biodiversità). Ad esempio, l’agricoltura italiana non produce a sufficienza ed è costretto ad importare le materie prime per rifornire l’industria agroalimentare che poi esporta in tutto il mondo. L’Europa può aiutare molto il nostro Paese a sviluppare proprio quei settori della tecnologia più avanzata che un domani potranno dare risposta al paradosso di un Paese non produttore, ma esportatore. Bisogna crederci, nell’Europa.