Un altro anno sta per concludersi e noi siamo ancora qui insieme a quanti credono nell’importanza del “Made in”; sono ancora qui, però, anche le annose questioni su qualità e tutela del prodotto che, numero dopo numero, andiamo segnalando.
I dati resi noti da Confcommercio sulla familiarità di buona parte degli italiani all’acquisto di prodotto contraffatto deve indurre ad una riflessione, perché evidentemente c’è un aspetto culturale, su cui hanno scarsa presa i richiami all’economia nazionale danneggiata, al favoreggiamento del malaffare, ai posti di lavoro persi, alla salute minacciata.
Il problema è di fondo, perché se a prevalere è l’apparire e non l’essere, contraffare il brand sa quasi da azione alla Robin Hood: sottrarre al ricco per consentire a tutti l’accesso all’appagamento sociale; non a caso, i prodotti più taroccati sono le grandi firme della moda e dell’agroalimentare.
Si deve, in realtà, recuperare il rapporto fra valore intrinseco del prodotto e suo costo: fino a quando a fare la differenza sarà in primis il brand e non la qualità, sarà assai difficile evitare la scorciatoia del tarocco similvero.
Serve un rinnovato patto fra produttori e consumatori non nel nome della rincorsa al maggiore ribasso, ma del prezzo giusto, cui devono concorrere, in maniera equilibrata, i vari costi (in primis quello di un’equa retribuzione dei lavoratori) e l’utile d’azienda. Comperare meno, ma comperare meglio.
La crisi non può essere alibi per le peggiori cose come la contrapposizione fra tutela dell’ambiente e produzione, crescite di fatturato a discapito delle condizioni di lavoro, licenziamenti per aumentare i dividendi agli azionisti. In questo quadro di avvilimento del valore lavoro, la contraffazione rischia di apparire, soprattutto alle giovani generazioni, solo un peccato veniale.
In tempo di regali e buoni propositi, dobbiamo chiedere a tutti una seria consapevolezza: cosa difficile, perché non è mai in svendita.

Il Direttore
Fabrizio Stelluto