Agroalimentare e moda sono le due colonne che sorreggono la stagnante economia italiana. Ma mentre è negativa la bilancia dei pagamenti esteri per l’agroalimentare (importiamo prodotti per 44 miliardi contro 41 di export, secondo i dati ufficiali del 2018), per la moda il bilancio è nettamente positivo, con un export che rappresenta oltre il 72% del proprio fatturato.
Nel 2018 il giro d’affari è stato di 71,7 miliardi di euro, in crescita del +3,4% rispetto all’anno precedente, così che cresce il peso specifico del comparto arrivato a rappresentare l’1,2% del Pil nazionale.
Si è detto in questi giorni delle preoccupazioni legate agli effetti che potrà avere l’epidemia di coronavirus sull’andamento economico mondiale e in particolare sul mercato della moda e del lusso che vedevano in costante aumento gli acquisti cinesi. L’epidemia avrà uno strascico di almeno 6-8 mesi, dicono gli esperti e ciò fa tremare i polsi se solo si pensa agli effetti che già oggi si manifestano gli esempio non mancano dal crollo degli arrivi di container al porto di Livorno che ha messo in crisi l’intera attività dello scalo, alla cancellazione di un flusso turistico che era estremamente importante per un Paese come il nostro.
Per la moda questa emergenza sanitaria viene poi a coniugarsi con una fase di profondo ripensamento del comparto: la sfida è aperta tra Fast Fashion e sostenibilità e dallo scontro tra questi due poli bisogna attendersi grandi cambiamenti. È indubbio che le giovani generazioni sono portatrici di istanze di rispetto dell’ambiente, eticità e lotta agli sprechi che nulla hanno a che vedere con una moda che ogni giorni cambia sé stessa e i modelli che vorrebbe imporre.
Ai produttori sta quindi oggi difronte una scelta strategica che è anche ‘di sopravvivenza’. In questo, il ‘sistema Italia’ dovrà saper far valere come ‘arma vincente’, oltre che la riconosciuta creatività, anche la propria propensione ad una rapidità di adeguamento e di ‘elasticità’ che, nemmeno molti anni fa, ha caratterizzato il suo tessuto produttivo.