Sarà che mi porto dietro un senso di ‘sacralità’ per la tradizione; sarà che il cibo in generale è un fondamento ‘etico’ del vivere; oppure sarà solo che invecchio e faccio fatica a stare al passo con i tempi. Ma la strada imboccata da vino, da coloro che lo consumano e dai produttori che ne seguono le tendenze, beh, proprio non riesco a condividerla.
E dire che il vino continua a essere ancora oggi tra le bevande più apprezzate. Basti pensare che secondo un’indagine americana del Wine Insititute nel 2018 ne sono stati consumati 3 miliardi e mezzo di litri negli USA e che in Italia, stando ai dati ISTAT, a berlo almeno una volta all’anno sono il 54,1% delle persone e tutti i giorni il 18,2%. E secondo un’indagine di Beer Marketer, i millennial preferiscono vino e liquori alla birra, ribaltando il trend degli anni ’90.
Naturale pertanto che su di un prodotto così diffuso, così ‘parte’ della vita contenporanea, anche le tensioni della nostra società d’oggi facciano sentire la loro pressione. Ecco allora, e lo capisco, che sempre più spesso si parla di vino biologico e che da qui il passo verso il vino vegano sia stato ‘naturale’ (anche se la coltivazione vegana non dovrebbe usare fertilizzanti ‘biologici’ perché di origine animale). Ma fin qui siamo ancora nell’aura dell’accettabile: biologico senza saperlo era il vino, in realtà non così buono, dei nostri nonni. Un po’ meno normale appaiono i vini (sì, ce n’è più d’uno) all’infuso di cannabis: ma dicono che abbia numerose proprietà benefiche e salutistiche.
La quando si propugna un futuro certo e luminoso per i vini arancioni qualcosa in me si ribella: meglio non chiamarli nemmeno vini, ma più genericamente bevande. Sono prodotte attraverso la fermentazione di uve bianche con le loro parti solide, ovvero pelle e graspi, ma che possano essere accomunate a per lo meno azzardato. Così come non è accettabile che sia in rapida ascesa il vino in lattina. Scontato che gli abbiano dato un nome in inglese, ma non per questo il “canned wine”, per quanto sia in voga per via della sua praticità d’uso e portabilità, non potrà mai restituire al consumatore la fragranza di un territorio, il valore del lavoro per la sua produzione, l’empatia che l’enologo mette per ottenere un risultato unico ed ineguagliabile. Viva allora il Cabernet Franc, vino fruttato francese per eccellenza, contraddistinto per un mix di aromi che vanno dalla frutta alle spezie, mantenendo la sua freschezza e mineralità.