Sembra la stessa cosa… ma non lo è”: questo lo slogan, semplice e diretto, dell’originale iniziativa anticontraffazione inscenata dallo Sporting Lisbona nella partita, vinta 5-1, contro l’Arouca allo stadio di Alvalade. Per quarantacinque minuti il portiere della squadra biancoverde e della nazionale Rui Patrício ha indossato una maglia con la scritta R. Patríssio. L’ex interista Schelotto è stato trasformato in Squeloto, Coates è stato convertito in Couts, Ruben Semedo in R. Smedo, e così via. Nell’intervallo lo speaker dello stadio di Alvalade ha provveduto a chiarire le idee agli spettatori rimasti disorientati: l’intento dello Sporting Lisbona era quello di richiamare l’attenzione sul problema, molto grave, della contraffazione delle maglie originali.
La contraffazione del merchandising calcistico non è un problema soltanto italiano, dove comunque riveste un carattere di emergenza se viene comparato alla struttura industriale e finanziaria dei Paesi più avanzati calcisticamente. L’annuale Benchmarking Report pubblicato dalla Uefa lo scorso ottobre, su dati 2014, segnala come i ricavi dei club di serie A dipendano per il 51% dai diritti televisivi, mentre la biglietteria da stadio fornisce un misero 11% e la voce “sponsorship and commercial” si ferma al 23%, comprendendo anche il merchandising. In Italia acquistare una maglietta originale è una rarità e la diffusione delle maglie contraffatte è capillare, anche in prossimità degli stadi.