Start up d’agricoltura bio avrebbe cacciato dopo solo due giorni chi raccoglieva frutti di bosco

Ha destato molto scalpore su tutta la stampa nazionale il sequestro operato dalla Guardia di Finanza di tutti i beni di “Straberry”, una start up lombarda che coltiva e vende frutti di bosco provenienti da agricoltura biologica.
Nel suo sito “Straberry” si definisce come “un’impresa giovane e innovativa che rappresenta la più grande realtà in Lombardia che coltiva frutti di bosco” e gode di una certa notorietà a Milano perché vende i suoi prodotti in Ape in alcune delle piazze principali della città.
Ora sette persone fra amministratori e dipendenti sono indagati per sfruttamento del lavoro e intermediazione illecita nei confronti di un centinaio di braccianti, perlopiù stranieri provenienti dall’Africa subsahariana. La procura di Milano accusa l’azienda di avere stipulato contratti irregolari, di pagare i braccianti una cifra decisamente inferiore al contratto di categoria e di mantenere condizioni di lavoro disumane.
Ad insospettire gli inquirenti sarebbe stato il numero anomalo di annullamenti di assunzioni dei braccianti dopo soli due giorni. Secondo l’accusa, sui terreni della start up gli extracomunitari erano costretti a due giorni di prova: se non riuscivano a raccogliere almeno quattro o cinque cassette di fragole all’ora, in una giornata di lavoro di nove ore, erano fuori.

L’azienda era stata aperta nel 2010 da Guglielmo Stagno d’Alcontres, discendente di una famiglia nobile di origine siciliana, che durante gli studi universitari aveva deciso di coltivare fragole in uno dei terreni di famiglia nella zona di Cassina de’ Pecchi, nella periferia nordest di Milano. Col tempo Straberry si è fatta conoscere, ha acquisito altri terreni e ampliato la produzione. Oltre alle fragole coltiva anche mirtilli, lamponi e more, utilizzandoli per produrre succhi, gelati, frullati, e così via.
L’azienda aveva anche ottenuto alcuni riconoscimenti da Coldiretti, ma anche i lavoratori regolari avevano ripetutamente lamentato anomalie nella gestione degli orari di lavoro, scarsa trasparenza nelle buste paga e atteggiamenti talvolta vessatori da parte dei loro referenti in azienda. La maggior parte dei dipendenti era ospite dei centri di accoglienza nelle province di Milano e Monza, e da questi era incoraggiati, per emanciparsi, a trovare un impiego stabile.