Un’azione individuale semplice che punta a far rumore: basterà indossare gli abiti al contrario, con l’etichetta bene in vista, fotografarsi e condividere le foto attraverso i social media con l’hashtag #WhoMadeMyClothes e #FashRev. È la campagna internazionale “Fashion Revolution” che, dal 22 al 28 aprile, pone la semplice domanda “Chi ha fatto i miei vestiti?” ed intende così aumentare la consapevolezza dei consumatori e tentare di influire sul comparto industriale più inquinante al mondo dopo quello petrolifero, la moda.
Su un pianeta popolato da circa 7,6 miliardi di persone, nel 2017 sono stati venduti 154 miliardi di pezzi d’abbigliamento (+2,3% sul 2016) con il risultato che per ogni persona sono disponibili ogni anno 20 nuovi capi di vestiario e che la pubblicità ed un marketing sempre più aggressivo ha spinto la popolazione mondiale, ovviamente soprattutto nei Paesi più industrializzati, ad acquistare il 60% in più di abiti rispetto a quanto facevamo nel 2000. e vi sono studi statistici che dimostrano che una percentuale non indifferente dei capi comprati restano poi in armadio senza mai essere usati.

Nel ricordo di Rana Plaza, simbolo negativo dello sfruttamento che tiene in piedi l’industria del lusso

La campagna internazionale “Fashion Revolution”, in Italia sostenuta da “Altromercato”, “altraQualità” e “Equo Garantito”, si propone di coinvolgere l’opinione pubblica nel creare consapevolezza attorno al mondo della moda, a ciò che in esso non va e merita un cambiamento verso la sostenibilità.
Con un pensiero alla strage di Dacca, in Bangladesh, dove, il 24 aprile 2013, persero la vita nel crollo del polo produttivo tessile di Rana Plaza 1133 operai e oltre 2500 persone rimasero ferite. Come in altri 50 Paesi del mondo, anche gli italiani possono di dimostrare che un modello economico diverso ed un consumo responsabile non sono solo possibili, ma esistono già.