Lo abbiamo scritto recentemente: i grandi marchi della moda italiana sono solidi, con pochi debiti ed una buona liquidità. Fattori importanti in un comparto che sta rapidamente cambiando la propria natura e che sta dimostrandosi il più ‘moderno’ per la rapidità con la quale si adegua ai nuovi tempi. L’esempio viene dalla longevità del computer sul quale scrivo queste righe: ha qualche anno, ma è ancora perfettamente adeguato alla funzione che deve svolgere.
Ma la moda ribalta l’azienda produttrice ogni sei mesi! Con una velocità sconosciuta fino a poco tempo fa quando il ritmo era quello dettato dalle presentazioni in passerella alle quali seguivano gli ordini dei compratori; si avviava allora la produzione che alimentava la distribuzione nei negozi nei quali avveniva la vendita. Quel che il disegnatore pensava, chiedeva un anno per essere indossato. Oggi le sfilate propongono abiti che possono essere acquistati immediatamente, letteralmente sul posto, “visto e comprato”.
Da questo punto di vista ‘rivoluzionario’, l’abilità italiana, che molto spesso nasce dalla forte radice artigiana del saper fare, ne viene premiata tanto che l’Italia rappresenta il 35% della moda europea. E fa gola al colosso francese che, forte di una più lunga tradizione e reputazione internazionale, rappresenta una analoga quota del business mondiale.
«Di fatto siamo quasi un unicum – spiega Claudio Marenzi, presidente di Confindustria moda e di Pitti Immagine – visto che la produzione francese è fatta quasi tutta in Italia e buona parte dei marchi italiani sono di proprietà francese. In effetti le acquisizioni francesi di aziende italiane iniziano a essere tante, ma l’importante è che il know how resti in Italia e vengono salvaguardati i posti di lavoro e il patrimonio culturale della moda». Essere europei non è una condanna, ma una forte opportunità.